No. Non mi sono, per la prima e memorabile volta, accostata alla lettura de “I Promessi Sposi”, seduta, con le gambe contratte, davanti ad un banco di una fredda aula del secondo anno di ginnasio.
In quei frangenti, talvolta, non si è nelle condizioni psichiche e mentali di assaporare un capolavoro, ma, meramente, in quelle di addentare un panino.
E, altre volte, ciò che fa ardere nell’attesa non è l’agognata conclusione del capitolo, in cui un mondo intero, fatto di donne, uomini, popoli e storie, si condensa nello spazio di un novero di pagine, ma lo squillare della campanella, che è percepita quasi come melodia celestiale.
Non è una spietata condanna della Scuola, che io amo immensamente, sia in qualità di alunna, che sono stata, sia nelle vesti d’insegnante, che sono.
Ma si tratta, invece, della consapevolezza che un libro di un certo spessore culturale, nello specifico notevole, per essere letto, farsi narrare e renderci parte di esso, deve farci innamorare, conquistarci lentamente e aspettare i nostri tempi personali, come un bravo seduttore.
Ho iniziato a leggere i “Promessi Sposi” intorno agli undici anni, quasi dodici, ad essere esatti. Ho allungato la mano verso quel tomo polveroso, riposto nella libreria della casa dei miei nonni, e vi ho scorto, nel frontespizio, le firme, ancora incerte, delle mie zie e zii e di mio padre. Evidentemente lo stesso libro era passato dal più grande al più piccolo, ogniqualvolta uno dei fratelli accedeva al secondo anno del liceo classico.
Ho amato e amo Alessandro Manzoni, e tramite esso, il genere del romanzo storico, i cui primi capolavori sono attributi al genio di Walter Scott, il quale introdusse il principio di “immedesimazione”, una sorta di tuffo nei meandri del tempo grazie al quale prendono vita pensieri e comportamenti non riconducibili al contesto storico dello scrivente, ma all’epoca presa in esame.
E voi, che apprezziate o meno l’opera manzoniana, ritenuta un orgoglio nazionale, state per accingervi nella stesura di un racconto o romanzo del genere sopracitato? Se sì, state per dedicarvi ad un’opera, di matrice prettamente ottocentesca, di carattere narrativo, ambientata nel passato, attraverso la quale far rivivere al lettore non solo episodi o periodi trascorsi, ma evocare atmosfere, enunciare convinzioni religiose e filosofiche e immergersi, tramite l’ausilio di un filtro, in mentalità popolari e di stili di vita che non sono più i nostri.
“Ciascuno discuteva, perorava, parlava ad alta voce, bestemmiava, sacramentava mandando il Cardinale e le sue guardie a tutti i diavoli. Un momento dopo Porthos e Aramis rientrarono; solo il chirurgo e il signor di Tréville erano restati presso il ferito. Infine il signor di Tréville rientrò a sua volta. Il ferito aveva ripreso conoscenza; il chirurgo dichiarava che lo stato del moschettiere non aveva nulla che potesse preoccupare i suoi amici, il suo svenimento era stato provocato semplicemente dalla perdita di sangue. […] D’Artagnan disse il suo nome e il signor di Tréville, richiamando tutti i suoi ricordi del passato e del presente, si ritrovò al corrente della situazione. “Scusate” disse sorridendo “scusate e, caro compatriota, vi avevo completamente dimenticato. Che volete! Un capitano non è che un padre di famiglia carico di una responsabilità più grande di quella di un padre normale di famiglia. I soldati sono dei grandi fanciulli; ma siccome ci tengo a che gli ordini del Re e soprattutto quelli di monsignor Cardinale siano eseguiti…” D’Artagnan non poté dissimulare un sorriso”.
Alexander Dumas, I tre Moschettieri.
“Quando si unì al canto, Lloyd sentì che là, in quella cappella imbiancata a calce, batteva il cuore della Gran Bretagna. La gente intorno a lui era poco istruita, vestiva modestamente e lavorava sodo per tutta la vita: gli uomini a scavare il carbone sottoterra, le donne a tirare su la generazione successiva di minatori. Però avevano le spalle larghe e la mente acuta e si erano creati una propria cultura che rendeva la vita degna di essere vissuta. Alimentavano le proprie speranze attraverso la chiesa non conformista e gli ideali di sinistra; traevano gioia dalle partite di rugby e dai cori maschili; nei tempi buoni li univa la generosità, in quelli duri la solidarietà. Quella gente, quella città: ecco per cosa Lloyd voleva lottare. E, se per questo avesse dovuto dare la vita, ne sarebbe valsa la pena”.
Ken Follett, L’inverno del mondo.
Benissimo, si parte a ritroso, con la macchina del tempo, in epoche lontane, armati di conoscenze tecniche e narrative in grado di non farvi vacillare.
“C’è solo questo come consolazione: un’ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni probabilità e aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato, anche se tutti tranne i bambini (e forse anche loro) sanno che queste ore saranno inevitabilmente seguite da altre molto più cupe e difficili. E comunque amiamo la città, il mattino; più di ogni altra cosa speriamo di averne ancora”.
Michael Cunningham, Le Ore.
“Lo stesso giorno in cui Giorgio V fu incoronato nell’abbazia di Westminster a Londra, Billy Williams scese per la prima volta in miniera ad Aberowen, nel Galles meridionale. Fu suo padre a svegliarlo con la solita tecnica, efficace ma non molto delicata: gli diede alcuni schiaffetti decisi e insistenti sulla guancia. Il ragazzo, immerso in un sonno profondo, dapprima cercò di ignorarli, ma avvertì un moto di rabbia quando continuarono implacabili. Poi si ricordò che doveva, anzi voleva, alzarsi, così aprì gli occhi e scattò a sedere”.
Ken Follet, La caduta dei giganti.
“Una folla d’uomini barbuti, dagli abiti scuri e dai grigi cappelloni a punta, e di donne in cappuccio o a testa nuda, stava raccolta davanti a un edificio di legno, la cui porta di quercia massiccia era guarnita con bulloni di ferro.
I fondatori d’una colonia, qualunque Utopia di virtù e felicità umana possano aver divisato in origine, hanno sempre riconosciuto tra le prime necessità pratiche quella di destinare una parte del suolo vergine a cimitero, ed un’altra a prigione”.
Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta.
“Ma il racconto di questo genere a cui l’autore di Ivanhoe deve riconoscenza risale a due secoli prima di quelli testé ricordati. Fu fatto conoscere al pubblico per la prima volta attraverso quel curioso archivio di letteratura antica raccolto dagli sforzi congiunti di Sir Egerton Brydges e Mr. Hazlewood nel periodico intitolato “The British Bibliographer”. Di lì è stato preso dal reverendo Charles Henry Hartshorne, M.A., che ha curato un interessantissimo volume intitolato “Antichi racconti in versi, stampati principalmente dalle fonti originali”,1829. Il signor Hartshorne non ci fornisce altra testimonianza su questo frammento se non l’articolo del “Bibliographer”, dove compare con il titolo di “Il re e l’eremita”.
Walter Scott, Ivanhoe.
“Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?”
Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. “Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano”.
Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi.
“Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. “Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si sentì stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi”.[…] “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” […] “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo.
“Scusa, se io sono importuno. Da un mio amico venne oggi smarrita una bianca colomba, bella come le nuvolette baciate dal sole, pura come le nevi che depone l’inverno sulle creste del Limbara. Il mio amico è inconsolabile; ed io vengo qui per cercare il tesoro che ha perduto”.
“Mi duole della sventura toccata al tuo amico, ma devo dirti che qua non vi ha colomba”.
“Fratello, non adontarti, se son costretto a non credere alla tua parola. Fu vista da taluni una colomba spiccare il volo verso questo stazzo. Essa dev’esser qui”.
Enrico Costa, Il muto di Gallura.
“Rocco spiega che si diventa ricchi solo derubando qualcun altro. Non è necessario rubare i soldi. Si possono rubare tante cose. Il tempo di un altro, la sua salute, la sua giovinezza, i suoi sentimenti, la sua dignità, la sua anima. Ciò dimostra che in ogni caso la proprietà è un furto e il lavoro il grimaldello di cui si servono i ladri per scassinarti la vita”.
Melania G. Mazzucco, Vita.
“Recuperare la verità storica dei fatti è impossibile. Non solo perché la memoria di ogni uomo ha diversa estensione, ma perché ciò che attrae l’attenzione di uno sfugge a quella dell’altro. Anche ammettendo la buona fede di ognuno, ciascuno ricorda quanto ha attratto la sua attenzione, non ciò che è passato realmente sotto il suo sguardo”.
Valerio Massimo Manfredi, Idi di Marzo.
“Ebbi l’impressione che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l’adeguazione fra la cosa e l’intelletto. Egli invece si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile”.
Umberto Eco, Il nome della rosa.
Sostenete, per esempio, che la storia è magistra vitae o che esistono percorsi ciclici ai quali non si sfugge, che non vi è reale progresso o che esso sia il perno stesso dell’esistenza? Quello che oggi siamo è il risultato di ciò che un tempo, è avvenuto? Pubblicare un romanzo storico è per voi un atto sovversivo, attraverso il quale denunciare quanto è accaduto e ancora si ripete?
Non dovete formulare risposte in modo esplicito. E’ un romanzo, non un saggio dalle pretese scientifiche ed ermeneutiche. Ma i vostri personaggi parleranno per voi e il lettore percepirà, più o meno consapevolmente, a seconda del proprio livello di astuzia, il vostro pensiero.
“Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati”.
Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano.
“Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo”.
Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi.
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